Articolo pubblicato sul magazine online Polpettas.com
Sorride sempre, Pif, tranne quando sto per fargli una domanda e lo sguardo allora si fa preoccupato. Ed è puntualissimo: è arrivato all’appuntamento spaccando il secondo. Puntuale e sorridente, i presupposti migliori quando hai solo 10 minuti per fare un’intervista per la quale hai preparato 36 domande, circa.
La cornice di questo incontro è il Festival de Cine Italiano de Madrid dove Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif (Palermo, 1972), presenta per la prima volta all’estero, In guerra per amore, secondo lungometraggio dell’attore-regista-autore-e-conduttore televisivo, ad un mese dall’uscita nelle sale italiane.
In guerra per amore
Sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, un umile immigrato palermitano a New York, si troverà in guerra per amorepartecipando un po’ per caso e un po’ per davvero allo sbarco in Sicilia del ’43, testimone in prima persona delle gesta dell’esercito americano che riuscirà a liberare l’isola dal fascismo stringendo un patto con la malavita locale. Con una brillante ironia e leggerezza, il film riesce a risolvere le vicende personali dei protagonisti e dei grandi eventi storici, in bilico tra amarezza e romanticismo, nella più pura tradizione della commedia all’italiana, che ha sempre raccontato i mali del nostro Paese sorridendo.
Sull’importanza di questo avvenimento storico lo stesso Pif afferma: «Quello che hanno fatto gli americani in Sicilia lo hanno ripetuto successivamente in Afghanistan, in Siria, in Iraq, solo che in Sicilia gli è venuto particolarmente bene. È una cosa che ci interessa tutti perché tutti siamo diversamente americani. Purtroppo non mi sono inventato nulla, quel patto ci fu e la nostra democrazia si basa su quel patto, e le conseguenze di quella scelta continuiamo a pagarle oggi. Non dico di non essere loro grato che ci abbiano liberato dal fascismo, e da noi stessi… Meglio una democrazia scricchiolante che un regime perfetto».
Un po’ per gioco e un po’ per creare un legame di continuità fra questo e il suo film precedente, vengono usati gli stessi nomi per i protagonisti –Flora ed Arturo- a voler sottolineare come gli avvenimenti narrati qui siano le basi che porteranno poi ai fatti raccontati ne La mafia uccide solo d’estate.
«Fuori dall’Italia non mi conosce nessuno»
Può anche esser stato sul divano fino a trent’anni aspettando l’illuminazione, Pierfrancesco, sta di fatto che oggi le idee ce le ha decisamente molto chiare. Dopo aver avverato il suo più grande sogno, quello di realizzare un film -ad oggi sono addirittura due- il suo prossimo desiderio è vedere i suoi film distribuiti e proiettati all’estero: «Così come Almodóvar o Fellini sono riusciti a valicare i confini nazionali raccontando la loro quotidianità, mi piacerebbe che anche le mie storie potessero incontrare l’interesse del pubblico all’estero mantenendo la loro italianità. La mafia uccide solo d’estate ha vinto l’European Film Award e la posso considerare come una prova che il film funziona al netto della mia persona, perché fuori dall’Italia non mi conosce nessuno».
Nel frattempo ha già per le mani l’idea per il prossimo film che, ci assicura l’autore, «non parlerà di mafia. Ho bisogno di prendermi una pausa! Mi piacerebbe fare un film sul Maxiprocesso ma oggi no, non voglio rimanere fermo. Il bello di questo lavoro è poter raccontare quello che vedi, che ti succede, il mondo intorno: fare televisione mi dà tanti stimoli e fa maturare le idee. Quella tra il mio lavoro televisivo e cinematografico è una felice convivenza».
La mafia uccide solo d’estate
In Conversazioni su di me e tutto il resto, leggo di come Woody Allen fosse partito dal ricordo delle canzoni appartenenti alla sua infanzia per scrivere Radio Days e realizzare uno dei suoi film più personali.
In un certo qual modo ritrovo questa stessa sensazione nel primo film di Pif, La mafia uccide solo d’estate, un film intimo, sulla sua generazione e la sua città, sicuramente più emotivo del suo secondo lavoro, anche perché, come lui stesso racconta, «era un’idea che avevo in testa da tempo: volevo scrivere una sorta di Forrest Gump siciliano, la storia di un ragazzino di 10 anni che incontra i suoi miti nella Palermo degli anni ’70. Volevo raccontare questi combattenti caduti allontanandomi dalla tradizione dei film sulla mafia che terminano sempre quando muore quello che di solito è il protagonista della storia. L’idea era “cosa succede in città dopo”, rendendo giustizia anche, e proprio, a ciò che hanno fatto in vita».
La generazione della denuncia
Pif scherza spesso definendosi un minchione, ma non lo è. Si avvicina di più ad una persona matura, lucida ed estremamente consapevole: ha partecipato da ragazzo alle manifestazioni antimafia quando la situazione in Sicilia era davvero pericolosa, e oggi che ne ha la possibilità gli sembra giusto e doveroso parlarne. «Faccio parte di una generazione a cui non basta sapere le cose: la differenza, ad esempio, con mio padre, è arrivare a denunciare qualcosa o qualcuno e non tenerlo per sé, nel mio piccolo tento di dare un contributo al miglioramento del Paese. La mafia non ha il senso dell’umorismo, e per questo è bello pungere qualcuno sul vivo. La mafia prima dei soldi vuole essere riconosciuta come potente, quindi se c’è lo sberleffo, se la prendi in giro, la colpisci… Io non ho altri mezzi che l’umorismo quindi la mia arma è questa».
Quel cambiamento necessario
«Quando ero piccolo in Sicilia la situazione era tremenda, oggi un bambino di 10 anni a Palermo vive molto meglio, il problema è che il prezzo del cambiamento è troppo alto». Torna spesso su questo tema, il cambiamento, raccontato con grande sorpresa e anche molta soddisfazione, lasciando un po’ di pessimismo solo nel retrogusto delle sue parole: qualcosa è davvero cambiato come ad esempio poter parlare apertamente di Cosa nostra, e lo dimostra il fatto che la serie La mafia uccide solo d’estate, tratta dal suo omonimo film, abbia guadagnato il posto di massimo rispetto in prima serata su Raiuno.
Lo racconta con un po’ di orgoglio, anche se non è la sua bravura quello che ci tiene a sottolineare: «Siamo un po’ tutti vittime de Il Gattopardo, un libro scritto negli anni ’50, che racconta di fatti ancora precedenti. Probabilmente non sono molti i siciliani che l’hanno letto, ma tutti si ricordano di una frase, “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” e questo è un alibi perfetto per non fare nulla, a noi ci piace essere così, ci siamo creati un alibi perché essere impegnati nella vita è molto più stancante, è meglio non fare niente e pensare che purtroppo è così che vanno le cose».
Non ama parlare di sé, ma quando gli dai il “la” su storia o attualità parte a macchinetta e non lo ferma più nessuno. Mi racconta di come si è arrivati all’idea finale di In guerra per amore, partendo in realtà dalla volontà iniziale di rievocare la lotta partigiana, e approdando invece, dopo varie inversioni di rotta, allo sbarco, un evento che ha segnato la nascita della democrazia nel nostro Paese, la nascita della Repubblica Italiana. E mi racconta di come un filo invisibile colleghi i suoi due film. Definisce partigiano Giovanni Falcone, che lottava per la libertà, e definisce partigiano Paolo Borsellino, che era di destra e che anche lui lottava per la libertà. Quella libertà per cui così tante persone sono morte in Sicilia e ancora non sono presenti nei libri di scuola.
Articolo pubblicato sul magazine online Polpettas.com